A Manama le monarchie del Golfo Persico serrano i ranghi

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Lo scorso 24 dicembre i sei Stati membri del si sono riuniti a Manama, capitale del Bahrain, per partecipare alla 33° riunione del Consiglio supremodell’organizzazione. Arabia Saudita, Qatar, Bahrain, Kuwait, Oman ed Emirati Arabi Uniti hanno siglato la dichiarazione Sakhir, con cui si auspicano di riuscire a raggiungere una maggiore integrazione politica, economica e militare nell’ambito della comune appartenenza araba.

Quella che può essere vista come il primo passo verso una “Unione del Golfo” (tentativi simili si sono già fatti in passato) , come augurato dal re saudita Abdullah al-Saud, risponde in realtà alla necessità delle monarchie arabe di contrastare in modo coeso il dinamismo iraniano nella regione. Uno dei principali terreni di scontro con Tehran è senza dubbio il Bahrain. Il piccolo regno è governato dalla dinastia sunnita degli al-Khalifa, ma è abitato prevalentemente da una popolazione di religione sciita. Dal febbraio del 2011, spinta dal soffio della primavera araba, la popolazione del Bahrain è scesa in piazza per chiedere maggiore democrazia. La rivolta ha assunto ben presto caratteri religiosi.

L’Iran è stato il primo attore interessato alla rivolta in Bahrain. Fin dai tempi dello scià, Teheran brama di annettere la piccola isola. Se ciò dovesse accadere – o se in forma più soft si verificasse una significativa convergenza di interessi e di azioni fra i due Stati – gli ayatollah guadagnerebbero un grande spazio di manovra all’interno del Golfo. Si indebolirebbe parallelamente la posizione degli americani, che proprio in Bahrain hanno una importante base navale.

Il pericolo che Manama entri nell’orbita di Teheran ha spinto l’Arabia Saudita ad intervenire direttamente con il proprio esercito per reprimere le rivolte del popolo bahreinita contro la casa regnante, ed è uno dei motivi che ha mosso le monarchie arabe a stringersi compatte intorno ad un meccanismo di sicurezza comune. Un secondo campo di scontro tra e Iran sono le tre isolette vicine allo stretto di Hormuz: Abu Musa, Tonb-e Mozorg (Greater Tunb) e Tonb-e Kuchek (Lesser Tunb). Sono occupate militarmente dall’Iran, ma gli Emirati Arabi Uniti le rivendicano.

Da Manama sono state lanciate accuse a Teheran anche riguardo alla pericolosità della centrale nucleare di Bushehr, situata sulla costa della omonima cittadina iraniana. Voci insistenti parlano di un incidente che sarebbe stato miracolosamente sventato nel mese di ottobre grazie all’intervento di ingegneri accorsi di gran carriera da Mosca. Ovviamente “la centrale nucleare di Bushehr risponde ai più alti standard internazionali di sicurezza”, ha rassicurato di contro il portavoce del ministero degli esteri iraniano.

Dalla riunione del Consiglio non poteva mancare anche una presa di posizione riguardo alla crisi in Siria. Si è ribadito il sostegno alla Coalizione nazionale siriana e si è invocato un intervento della comunità internazionale per fermare le atrocità del regime di Damasco. Il concetto cardine espresso a Manama, quasi un mantra recitato in ogni dichiarazione pubblica, è l’ammonimento all’Iran a non interferire nelle questioni interne dei paesi arabi.

La risposta iraniana al meeting di Manama è stata immediata. Il ministero degli esteri di Teheran ha parlato dell’incontro rimarcando il fatto che sull’altra sponda si stessero facendo progetti senza uno dei principali attori regionali (cioè lo stesso Iran). L’Iran ha poi riaffermato la propria sovranità sulle tre isolette contese e ha condannato l’intervento saudita in Bahrain come un tentativo ipocrita di soffocare la giusta volontà popolare. Alle parole Teheran ha fatto seguire le azioni. Tre giorni dopo la fine del meeting di Manama, la marina iraniana ha compiuto alcune di esercitazioni per dimostrare la capacità degli ayatollah di bloccare l’accesso allo stretto di Hormuz.

Oltre alla minaccia iraniana, l’incontro del GCC è stato conseguenza anche del pericolo derivante dalle primavere arabe sulle ricche monarchie del Golfo. Mettere insieme le forze e dare un chiaro segnale di unità è la sola maniera possibile per preservare l’ordine costituito e riuscire a resistere alle sfide poste dallo scacchiere mediorientale.

Alle esigenze di sopravvivenza, l’accordo potrebbe creare una sorta di “colonialismo arabo” nella regione. Dei sei partecipanti al meeting, due sono stati gli attori più attivi nell’ambito del Consiglio: Arabia Saudita e Qatar. Essendo la prima fortemente invischiata in questioni interne (stagnazione economica, problemi legati alla successione dinastica), a fare la parte del leone è rimasto il Qatar, che grazie alle sue ampie capacità economiche è riuscito a ritagliarsi una invidiabile posizione di potenza regionale. La longa manus dell’emiro di Doha sembra ormai stagliarsi dalla monarchia hashemita in Giordania alla leadership di Hamas a Gaza, dai ribelli siriani fino ai Fratelli Musulmani (e, in un certo senso, anche in terra americana, con l’acquisto di Current Tv da parte dell’emittente al Jazeera di proprietà dell’emiro al-Thani).

Per poter giocare la partita del Medio oriente da paladini dell’identità araba, magari contrapponendosi a chi invoca un neo-ottomanismo o a chi ancora guarda speranzoso alla patria di Khomeini, occorre presentarsi come un attore unitario. Dare una dimostrazione di forza, magari per nascondere le proprie debolezze. Sfruttare le occasioni offerte da un mondo in mutamento, per non rischiare di esserne a propria volta sommersi.

4 gennaio 2013

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