I risultati del terzo trimestre per Alcoa, il più grande produttore americano di alluminio, sono migliori delle attese degli analisti, ma il bilancio è comunque in rosso: le perdite nette assommano a 143 milioni di dollari, cioè 13 cents per azione, mentre un anno prima la società aveva ottenuto utili netti per 172 milioni. C’è però da notare che nei conti entrano anche gli 85 milioni di dollari che la società ha concordato di versare alla Aluminum Bahrain come risarcimento per episodi di corruzione rilevati 4 anni fa e legati alle vendite di prodotti grezzi alla società del piccolo regno mediorientale.
Il fatturato Alcoa è stato di 5,83 miliardi di dollari, contro 6,42 miliardi nel terzo trimestre 2011. Molto si deve al calo delle quotazioni: al London Metal Exchange, punto di riferimento per i metalli di base, il prezzo medio dell’alluminio ha perso in un anno intorno al 20%. Ieri le proiezioni della società Usa sono state corrette al ribasso, alla luce del rallentamento dell’economia cinese: i consumi mondiali saliranno nel 2012 solo del 6% e non del 7%, come precedentemente stimato. È un cambio di passo notevole, se si considera che i consumi erano saliti del 13% nel 2010 e dell’11% l’anno successivo.
Il settore resta in effetti dominato ancora da un eccesso di offerta, anche se big occidentali come la stessa Alcoa, l’anglo-australiana Rio Tinto, la norvegese Norsk Hydro e la neozelandese Zeeland Aluminum negli ultimi 12-15 mesi hanno tagliato complessivamente la produzione di 1,21 milioni di tonnellate, secondo i dati resi noti dall’agenzia Bloomberg. La politica del ceo Klaus Kleinfeld, mirante a vendere soprattutto prodotti ad alto valore aggiunto, come i componenti per l’auto e per l’industria aeronautica, non è stata sufficiente a riportare il bilancio in territorio positivo, ma il risultato annunciato questa notte (come è tradizione, è il primo bilancio trimestrale pubblicato da una blue chip Usa) sembra aver soddisfatto gli analisti.
Alcoa, nota in Italia soprattutto per la decisione di abbandonare al suo destino l’impianto di Porto Vesme, in Sardegna, è un’azienda attiva nel settore da 124 anni ed è organizzata in 4 divisioni, quella dell’allumina (che estrae la bauxite e la sottopone alla prima trasformazione, in allumina), quella dell’alluminio primario (quindi proveniente dal minerale e non dai rottami), quella dei prodotti piani (per auto, aerei, ma anche per lattine), quella della meccanica (viti per l’aeronautica, pale di turbine, cerchioni di camion).
Negli ultimi 18 mesi il titolo a New York ha perso quasi il 50% e molti si attendono altre misure da parte di Kleinfeld. Qualche analista nota che una valutazione delle singole divisioni Alcoa porterebbe a un totale superiore almeno del 60% rispetto alla capitalizzazione complessiva, che oggi oscilla intorno a 9,7-9,8 miliardi di dollari. A punire il titolo sono in questo periodo i settori a monte, cioè l’estrazione di bauxite, la produzione di allumina e quella di alluminio. È anche questo fatto, oltre al forte costo dell’energia, a spiegare la decisione Alcoa sul futuro di Porto Vesme. Miniere e fonderie potrebbero tuttavia fare gola a soggetti diversi, come la grande casa di trading Glencore International (che però sull’impianto sardo si è già espressa negativamente). Più facile sarebbe probabilmente trovare acquirenti per la divisione meccanica, che potrebbe interessare a diverse società aerospaziali.