Bahrain, a tavola nel deserto

A 164 anni dalla prima Esposizione universale, tenutasi nel londinese Hyde Park, qui a Milano c’è ancora spazio per gli esordi. Dopo la comparsata a Shanghai 2010, a cui il Bahrain partecipò con la formula del padiglione collettivo in coabitazione con altri Paesi della regione, la piccola nazione del Golfo Persico ha deciso di presentarsi con un padiglione tutto suo da 2000 metri quadrati. La struttura è completamente bianca, con molte aree all’aperto e costituita da pannelli prefabbricati in calcestruzzo, che attraverso pareti dalle forme sinuose conducono all’interno di un’oasi. Uno dopo l’altro si incontrano dieci diversi orti botanici, ognuno dei quali popolato da piante che produrranno frutti in momenti differenti del Semestre; un concept che vivrà anche dopo la fine di Expo, perchè tutto il padiglione sarà smontato e ricomposto in Bahrain. Il percorso è di grande impatto e si indugia volentieri di fronte a rigogliose cultivar autoctone di papaya, uva, fico d’india, melograni e limoni.

Il Bahrain è effettivamente un Paese storicamente caratterizzato da un’elevata biodiversità e per rendere al meglio l’idea il padiglione commissionato dal Ministero della Cultura ha dedicato un’intera sala all’esposizione di manufatti archeologici agricoli, provenienti direttamente dai musei nazionali e risalenti anche all’avanti Cristo. In realtà è l’area espositiva nel suo complesso a voler rappresentare ‘un’interpretazione poetica dell’eredità della cultura agricola del Paese, che discende dall’antica civiltà di Dilmun’, per dirla con le parole degli organizzatori.

Queste immaginifiche suggestioni agresti dal passato- e bisogna inoltre dare atto al Bahrain di aver portato qui a Expo reperti di elevato valore archeologico- vanno però confrontate con un presente che racconta un’altra storia. Il Paese, situato nel Golfo Persico, è infatti un piccolo arcipelago di 33 isole, per la maggior parte desertiche, non fertili e non abitabili. Non per niente più del 90% dei circa 1,3 mln di abitanti risiede in città; e 600 mila nella sola area metropolitana della capitale Manama. In questi anni la sfavillante crescita economica del Bahrain è stata sostenuta dalle ingenti riserve di petrolio, un settore che assieme a quello dell’alluminio e dei servizi finanziari ha permesso di generare ricchezze sufficienti a sopperire con massicce importazioni alla ridotta presenza di generi alimentari prodotti in loco.

Il Paese è classificato dalla Banca Mondiale come economia ad alto reddito, ma in effetti chiacchierando con il responsabile del padiglione, Khalifa Al Khalifa, abbiamo scoperto che non esiste una vera e propria industria agroalimentare e che le rigogliose piante presenti a Milano popolano perlopiù tenute private. Uno scenario disarmante per noi italiani, che abbiamo fatto dell’agroalimentare un driver di crescita economica e reputazionale a livello globale e non a caso abbiamo costruito un’intera Esposizione universale sul tema; tuttavia le sfide poste al Governo del Bahrain in termini di sostenibilità e ricerca di nuove tecnologie in campo agricolo sono affascinanti proprio perché enormi e combattute in primo luogo contro la Natura, che in questo caso è involontario nemico mille volte più indomabile di qualsiasi congiuntura economica.

Quali sono i punti di forza dell’agroalimentare in Bahrain?

La produzione agricola più importante è quella dei datteri. Sul nostro territorio sono presenti circa 550 mila palme da dattero che producono 16 mila tonnellate di frutti all’anno. Inoltre grazie a questo albero si è sviluppata anche un’industria della lavorazione del polline di palma, da cui si ottiene un integratore alimentare ricostituente che esportiamo anche negli altri Paesi del Golfo. In Bahrain coltiviamo anche una gran varietà di frutti e verdure, ma non esiste una vero e proprio settore agricolo commerciale: le circa 15 mila tonnellate di prodotti ortofrutticoli raccolti ogni anno sono destinati al consumo locale.

Si capisce allora perché il Bahrain non sia autosufficiente a livello alimentare. Di certo la morfologia delle vostre terre non aiuta. Come fate fronte a questa cronica mancanza di risorse?

In effetti, solo per fare qualche esempio, il nostro Paese riesce a coprire il 40% del fabbisogno di uova e appena il 17% di latte, l’1% della frutta necessaria, il 2% del bestiame e il 16% del pollame, 13% dei vegetali. Per i datteri produciamo fino al 96% del fabbisogno. Va da sè che le importazioni agroalimentari siano fondamentali per soddisfare la domanda di cittadini e residenti, che quest’anno hanno toccato quota 1,3 milioni. Per la maggior parte dell’import ci rivolgiamo all’Arabia Saudita, l’unico Paese collegato al Bahrain via terra, attraverso la strada rialzata ‘King Fahd’.

Il quadro tratteggiato lascia immaginare che il vostro export agroalimentare sia praticamente inesistente…

Il valore dei prodotti agricoli esportati non supera l’1% del nostro export totale e si tratta comunque di commerci regionali. Prima di poter allargare la distribuzione ad altre aree del mondo, ad esempio l’Europa, dovremo fare dettagliate analisi dei vantaggi derivanti dalla commercializzazione dei nostri prodotti in mercati già altamente competitivi. Andrà anche vagliata la convenienza di trasportare i nostri prodotti in giro per il mondo.

Solo una piccolo parte delle vostre terre è fertile. Avete in programma l’implementazione di programmi per restituire terreni all’uso agricolo oppure non c’è nessuna convenienza socioeconomica in operazioni del genere?

Il nostro Governo è consapevole di dover difendere la coltivabilità delle terre nazionali in previsione di una sempre maggiore richiesta dovuta alla crescita demografica del Paese. Abbiamo lanciato diversi programmi nazionali di sviluppo agricolo diretti a incoraggiare l’attività d’impresa e aumentare il know-how nazionale. Per quanto riguarda la limitata disponibilità di terre fertili, siamo alla continua ricerca di soluzioni per quella che per noi rappresenta una vera e propria sfida; di recente stiamo spingendo molto le coltivazioni idroponiche, che non hanno bisogno dell’utilizzo di suolo. I risultati dei test sono stati un successo.

L’economia è basata sul commercio del petrolio, un settore spesso in conflitto con la sensibilità ambientale. Pensa che il Bahrain abbia trovato un punto d’incontro tra crescita economica e rispetto dell’ambiente? E forse l’improvviso dimezzamento del prezzo del petrolio potrebbe avere pesanti ripercussioni anche in questo campo, con mancati investimenti in produzioni a basso impatto…

La raffinazione del petrolio va a formare circa il 60% dei volumi del nostro export, ma tutte le compagnie, anche quelle del gas, sono sottoposte a rigidi controlli ambientali per mitigare il loro impatto sul territorio nazionale. Per quanto riguarda il crollo delle quotazioni del greggio, non è la prima volta che assistiamo a fluttuazioni, ma voglio sottolineare che il Governo in questi anni ha portato avanti politiche di diversificazione economica, in modo che la crescita del Bahrain non sia dipendente da questi shock. Oggi lo sviluppo del settore dei servizi finanziari e della logistica è un fatto innegabile.

A proposito di diversificazione, uno dei settori più antichi del vostro tessuto economico è l’allevamento di ostriche da perla, un’eccellenza famosa in tutto il mondo.

Sì, le perle erano il nostro prodotto di punta per l’export prima della scoperta del petrolio. Questo comparto è ancora oggi sostenuto con programmi governativi e le perle naturali sono vendute fuori dal Paese. Tra l’altro le perle per noi non sono solo un fenomeno economico, ma fanno parte della nostra identità nazionale. Nel 2012 l’area chiamata “Pearling: Testimony of an island economy” è entrata a far parte della lista dei siti patrimonio dell’umanità stilata dall’Unesco.

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