Bahrain, attivista pacifista arrestato per i suoi tweet

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E’ a Copenaghen che incontro Maryam Al Khawaja, co direttrice di Gulf Center for Human Rights. E’ la figlia del più importante promotore dei diritti in Bahrain, Abdulhadi Al Khawaja, condannato all’ergastolo nel 2012. La sentenza è stata confermata nel 2013 in quello che rappresentava l’ultimo grado di giudizio. Ora solo una grazia del sovrano del Bahrain potrebbe cancellare questa pena. Convinto pacifista, finisce in carcere il 9 Aprile 2011, quando scatta la repressione nei confronti di attivisti politici a seguito della sommossa cominciato il 14 febbraio di quello stesso anno. Ha una lunga storia come promotore di diritti, conosciuto in tutto il mondo. Abdulhadi Al Khawaja anche da detenuto è protagonista di clamorose proteste, ha portato avanti diversi e lunghi scioperi della fame. Nel 2012 per la durata di 110 giorni. L’ultimo, da settembre, l’ha portato avanti per ben 120 giorni, quasi il doppio dell’irlandese Bobby Sands, morto proprio a causa delle privazioni cui si sottopose, il 5 maggio 1981, nella prigione di Maze a pochi Km da Belfast. Il suo durò 66 giorni. Anche da detenuto Abdulhadi Al Khawaja ha continuato il suo lavoro e fatto pervenire all’esterno il suo sostegno alla causa, ribadendo quelle che sono le istanze da perseguire: opporsi con tutte le forze alle continue violazioni dei diritti umani e ottenere per tutti libertà d’espressione, di organizzazione e d’assemblea. “Mio padre – precisa Maryam Al Khawaja – da che io mi ricordo è da sempre un sostenitore dei diritti umani. Lavorava con le organizzazioni internazionali. E’ chiuso in carcere eppure continua a fare il suo lavoro. Nonostante le torture subite e che ancora subisce, ha ancora la forza di usare il suo corpo come ultimo grido di protesta contro le violazioni dei diritti umani nel Paese. Quando sei un attivista non smetti mai di esserlo.”. Maryam vive in Danimarca, che è la sua seconda casa. La famiglia Al Khawaja ha la cittadinanza danese e lei è proprio nata qui. E questo l’ha salvata, anche se il carcere l’ha conosciuto, anche ultimamente. Atterrata lo scorso settembre all’aeroporto della capitale Manama, circostanze poco chiare l’hanno costretta in detenzione per qualche settimana. E non era la prima volta, nonostante la giovane età di ventisei anni. “Rientravo proprio per vedere mio padre, che non gode affatto di buona salute. Sono stata fermata all’aeroporto e messa in prigione. Quando sono stata rilasciata, sono subito rientrata qui, a Copenaghen. Non avevo scelta.” Ed è proprio da Copenaghen che coordina il suo lavoro con l’organizzazione fondata dal padre. “E’ difficile, una volta entrati in prigione non sai mai quando potrai uscirne. Il governo è capace di tenerti imprigionato anche per periodi lunghissimi. Gente è stata trattenuta in prigione 210 giorni semplicemente perché presente a una manifestazione. Altri sommariamente condannati a pene che vanno da 6 a 25 anni. Attualmente ci sono 3mila persone detenute per motivi politici. Il dato più alto in questa regione del mondo anche in relazione all’esiguo numero di abitanti.”

Quando nel 2011 si comincia a parlare di primavera araba, è proprio dal Bahrain uno dei luoghi da cui si innesca la miccia. Masse pacifiche che chiedevano più diritti e libertà represse nel sangue. Da lì un’escalation di violenza repressiva. Il Bahrain ha chiesto l’intervento dell’esercito saudita per sedare i tumulti. Il numero dei morti mai precisamente chiarito nei primi giorni supera il cinquanta, in quel febbraio 2011. E tantissimi arresti, anche tra giovanissimi. I promotori delle proteste vengono prelevati nelle proprie case. Sotto accusa da subito anche l’uso dei social network con i quali i cittadini raccontavano quei giorni. Prima la speranza, poi la disperazione. Per questo sta passando dei guai Nabeel Rajab, intellettuale e promotore dei diritti umani in Bahrain. Imprigionato più volte, ora è in carcere per causa di un tweet del 28 settembre 2014 in cui si diceva non essere sorpreso “della presenza di soldati dal Bahrain nelle file di Isis, le forze sicurezza sono la prima incubatrice ideologica”. Continuità nell’uso della forza, continuità nel metodo. Arrestato per la quinta volta, Il 14 maggio dovrebbe iniziare, salvo rinvii, il processo d’appello nei confronti della condanna a sei mesi di carcere inflittagli il 20 gennaio, al termine di un processo durato tre mesi, per “offesa a una pubblica istituzione”. Nabeel Rajab rischia molto.

All’alba del 2 aprile è stato nuovamente arrestato, sempre a causa dei suoi tweet, stavolta riguardanti la crisi dello Yemen e il violento intervento delle guardie carcerarie, il 10 marzo, nei confronti di un gruppo di detenuti in sciopero della fame nella prigione di Jaw. Tre giorni dopo, nel corso di una perquisizione nella sua abitazione di Bani Jamra, le forze di sicurezza gli hanno sequestrato il computer, altri dispositivi elettronici e videocamere appartenenti ad altri componenti della sua famiglia.

Poche ore dopo l’arresto, il ministero degli Interni ha diramato un comunicato nel quale si dice che Rajab “è stato arrestato per aver pubblicato un messaggio che potrebbe incitare le persone e mettere in pericolo la pace”, in violazione degli articoli 133 e 216 del codice penale. Pena prevista: fino a 10 anni di carcere.

“Ci sono persone – spiega Maryam Al Khawaja – che vengono imprigionate per l’uso dei social, come è successo a Nabeel Rajab. Non ti è permesso di dire quello che pensi. Ogni giorno si protesta malgrado la mancanza di attenzione da parte dei governi internazionali. La gente continua a protestare e scioperare ogni giorno. E continua pure la repressione.“ Phisicians for Human Rights, associazione con sede a New York, composta di accademici americani che mettono la scienza al servizio dei diritti umani, afferma con un documento che il Bahrain ha fatto uso di lacrimogeni come nessun altro stato in cent’anni. La ditta coreana che glieli forniva, la Daeck Wang Chemical, a inizio 2015, ha dovuto interrompere le forniture a causa delle pressioni di tante associazioni internazionali. Ha ricevuto più quattrocentomila mail da tutto il mondo che chiedevano l’interruzione dei rifornimenti. Da quando ha avuto inizio nel giorno di San Valentino 2011, le voci della protesta non sono mai scemate. I primi giorni furono quelli della speranza, poi dal quarto tutti coloro che occupavano la piazza della Perla nel pieno centro della capitale Manama vennero spazzati via. “Il governo – precisa ancora Maryam –  ha creato un esercito privato e dato spazio a ditte per la sicurezza. Anche straniere. La polizia invece è stata rafforzata e c’è stato un picco di arruolamenti, anche tra immigrati. La gran parte arriva da Pakistan, Yemen e  Siria. Nelle ultime manifestazioni ci sono stati grossi problemi, sorti perché la polizia davanti a noi non parlava la nostra stessa lingua e non ci si comprendeva. In altri paesi ci pensano due volte prima di mettersi a sparare contro i propri cittadini, in Bahrain è all’ordine del giorno.”

Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, “il Bahrain è per noi un argomento caldo da quel febbraio 2011. Anche nel rapporto di quest’anno sulla situazione dei diritti umani nel mondo abbiamo evidenziato cosa accade in quello stato – isola. Dalle condizioni dei detenuti nelle carceri agli arresti con fragili motivazioni le criticità sono moltissime. Continuiamo a mettere in atto campagne che mirano a maggiori libertà e ad una inversione di rotta che li ancora non si vede. Sono ancora vietati i raduni pubblici nella capitale Manama, secondo quanto previsto dai decreti emanati dal governo nel 2013. Nessuno della famiglia reale Al Khalifa, dallo sceicco capo del Governo, Bin Salman fino al sovrano Hamad bin Issa Al Khalifa mostra la pur minima intenzione di concedere delle aperture o la grazia, al più importante difensore dei diritti in Bahrain, Abdulhadi Al Khawaja.” Anche per i giornalisti è molto dura. Ci sono stati decessi e ferimenti anche tra cameraman e fotografi stranieri che cercano di raccontare cosa accade, tra mille difficoltà. “La mia speranza per il Bahrain – afferma Maryam Al Khawaja –  è che si  riescano ad ottenere gli stessi diritti dei paesi democratici. Vogliamo che la comunità europea ci difenda e che ci tratti come suoi alleati e non come tratta i suoi nemici. Continueremo a fare pressioni sull’UE. Speriamo che l’Occidente metta nell’agenda della politica estera anche questa insostenibile situazione.”

A proposito di questo, Maryam Al Khawaja ci tiene a precisare un concetto.

“Credo che se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che ci sia un malinteso, un fraintendimento, a livello internazionale. Si pensa che la gente che abita nel Golfo Persico, sia molto ricca, che non abbia problemi, ma questa non è la verità. Ci sono i poveri anche da noi, anche in Bahrain c’è disoccupazione. E potrei citare anche altri paesi. La gente protesta anche per questo dal febbraio 2011. E’ chiaro che lo fa anche per riacquistare la propria dignità. In fondo chi scende in strada non fa altro che chiedere gli stessi diritti che ci sono qui in Europa.”

Un percorso in salita quello dell’acquisizione dei diritti. “E’ fondamentale per noi riuscire ad attirare l’attenzione della comunità internazionale che deve intervenire e fare pressioni su chi ci governa.” Per questo nel momento di massima visibilità del Bahrain, quando ospita una gara del campionato del mondo di F1, se è possibile le manifestazioni diventano ancora più intense.

“Gran parte della gente conosce il mio Paese, il Bahrain, per le corse di Formula 1. Quelle stesse gare sono state causa di violazioni ai diritti umani. Gente è stata arrestata, torturata e ammazzata proprio durante i giorni della competizione. Proprio durante l’edizione dello scorso anno gente e donne sono state violentemente picchiate proprio dentro il quartiere dell’autodromo. Di sbagliato c’è che degli esseri umani devono rischiare la loro vita per chiedere l’attenzione del mondo perché subiscono tremende ingiustizie, approfittando di una gara di automobili”.

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27 maggio 2015

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