di Valeria Vellucci
Dalla Turchia al Brasile continua il diffondersi della protesta. Si scende in piazza per rivendicare diritti, denunciare oppressioni e limitazioni della libertà di espressione. Accade anche in Bahrain, piccolo stato del Golfo Persico, anche se l’attenzione mediatica, qui, sembra essere totalmente assente.
Monarchia assoluta di re Hamad Ibn Isa Khalifa, anni di oppressione e gravi violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti della minoranza sciita presente nel paese. Era il 2011 quando i bahrainiti scesero in piazza per la prima volta e vi fu già chi parlò di ′primavera′. Piazza della Perla, Manama, il luogo simbolo della protesta.
Attualmente, in Bahrain, si viene arrestati anche solo per l’aver manifestato pacificamente. Uno dei simboli della lotta contro oppressioni e gravi violazioni dei diritti umani è l’attivista Zeinab al-Khawaja. Detenuta dal dicembre 2011 nel centro di detenzione femminile di Issa, la giovane trentenne bahrainita è stata accusata di: raduno illegale, incitamento all’odio e aggressione ad agenti di polizia, entrando così a far parte di coloro vengono definiti ′prigionieri di coscienza′.
Dal giorno del suo arresto, fino ad oggi, ha subito ben 4 processi di cui l’ultimo il 22 maggio scorso: condanna ad ulteriori 3 mesi di detenzione e pagamento di una cauzione di 200 dinari bahraniti. Neanche lo sciopero della fame e della sete, intrapreso lo scorso febbraio ed interrotto a maggio, è servito a ridurre la pena oppure a concedere l’incontro con i suoi familiari. E’ da alcuni mesi, infatti, che le è stato proibito di ricevere visite, punizione per il suo rifiuto di indossare l’uniforme carceraria.
E’ dei giorni scorsi, invece, la notizia dell’arresto del giovane Akbar Ali al-Kishi, 18 anni. Accusato di aver fatto esplodere bombole di gas, a scopo dimostrativo e non terroristico, è stato condannato a 10 anni di reclusione. La condanna, però, potrebbe andare incontro ad un prolungamento in quanto il giovane attivista è stato condannato anche per altri ″crimini″. Al-Kishi e la sua famiglia si sono rivolti al Centro del Bahrein per i diritti umani denunciando i soprusi di cui è stato vittima conseguentemente all’arresto: a quanto pare, durante gli interrogatori, alcune guardie avrebbero addirittura minacciato di sodomizzarlo.
Alla sua famiglia è attualmente vietato ogni contatto. E’ Mortada al-Moqdad, altro attivista bahrainita, ad affermare: «è in atto una vendetta per il suo impegno sin da quando era un ragazzo, le autorità in questo modo ritengono di dare una lezione a tutti i giovani che prendono parte alle manifestazioni». Spaventare i giovani e le loro famiglie, sperando che il timore dell’arresto possa indurli a non manifestare.
La monarchia del piccolo emirato rifiuta, inoltre, categoricamente e sistematicamente l’ingresso nel paese del relatore speciale dell’ONU per i reati di tortura, Juan Mendez. E’ lo stesso Mendez a dichiarare che: «Non ci è stata fornita alcuna data per il nostro ingresso in Bahrain e ciò può essere interpretato come l’esistenza di fatti da nascondere».