L’Alta Corte d’Appello ha confermato la sentenza per l’ultimo gruppo di 13 attivisti che nel 2011 avevano preso parte alle manifestazioni anti-governative.
Questa era la loro ultima possibilità, specialmente per gli 8 accusati di complotto contro lo stato e condannati a morte che speravano nella conversione in carcere a vita.
Il Bahrain, come è noto, da febbraio 2011 è in fermento e numerose sono state le manifestazioni di protesta contro il Re Hamad bin Issa al-Khalifah. Gli scontri violenti, con blocchi stradali e barricate, convinsero al-Khalifah a chiedere aiuto ai Paesi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi e Oman) di intervenire militarmente e le truppe straniere furono utilizzate per presidiare i principali punti strategici (gasdotti, pozzi petroliferi e centri finanziari) del Paese.
La situazione in Bahrain era e rimane particolarmente delicata perché in esso s’innestano questioni di etnia e di equilibri strategici. Infatti, il Bahrain pur essendo la popolazione in maggioranza Shiita, è governato dalla dinastia Sunnita al Khalifah. Per questo il vicino e potente Iran, Shiita, si è fatto paladino dei dimostranti, allo scopo di infiltrarsi e di espandere la propria influenza nella regione. L’Arabia Saudita, Sunnita, e tutti i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, anch’essi Sunniti, inviando truppe per mantenere sotto controllo la protesta, in realtà hanno difeso i loro stessi, poiché, cadendo il Bahrain, sarebbero seguiti a ruota il Qatar, il Kuwait e, soprattutto, la stessa Arabia Saudita.
Naturalmente anche gli Stati Uniti non sono stati avulsi alla situazione, avendo i loro bravi interessi. Il Bahrain, non solo è sede del quartier generale del U.S. “Naval Forces Central Command” e della V^ Flotta, ma, soprattutto, la sua stabilità e quella dell’intera regione costituisce deterrente nei confronti dell’Iran e, allo stesso tempo, ottima fonte di business con i paesi Arabi del Golfo, sospettosi verso Teheran e i suoi programmi nucleari. Infatti, quasi tutti questi Paesi hanno acquistato dagli Stati Uniti sofisticati e moderni armamenti, tra cui l’ultima versione del sistema contro missili balistici “Patriot”.
Le manifestazioni di piazza furono sedate nel sangue. Almeno 60 persone, tra cui diversi ufficiali e dirigenti di polizia, furono uccise, centinaia ferite e migliaia incarcerate.
I 13, che oggi hanno perso l’ultimo giudizio d’appello, erano tra i 20 capi attivisti, che si appellarono all’Alta Corte di Giustizia. 8 di loro erano stati condannati a morte, e tra questi Abdulhadi al-Khawaja, colui che per 110 giorni fece lo sciopero della fame.
“Il verdetto è finale, non ci sono altri possibili gradi di giudizio, questo è l’ultimo stadio della causa”, così si è espresso il loro legale, Mohammed al-Jishi.
Adesso si attendono le decisioni relative all’attuazione delle condanne a morte ovvero una loro eventuale trasformazione in carcere a vita. Sicuramente sul Re Hamad bin Issa al-Khalifah ci saranno pressioni nell’uno e nell’altro caso, ma, forse, in caso di esecuzione della pena, questa potrebbe scatenare una nuova ondata di protesta in tutto il Paese. Situazione che nessuno dei Paesi Arabi in questo momento vuole.
di Vito Di Ventura