Inizierà tra un mese esatto, il 17 settembre, il processo nei confronti di 57 imputati (51 dei quali già in carcere, mentre gli altri sei sono parenti di alcuni di questi ultimi) accusati di rivolta e di atti di vandalismo in una prigione del Bahrain.
I fatti risalgono al 10 marzo. Secondo la versione ufficiale, un uomo recatosi alla prigione di Jaw per visitare un parente incarcerato avrebbe rifiutato di esibire il documento di riconoscimento. Sarebbe stato imitato dagli altri parenti in visita, che avrebbero dato luogo a una sommossa insieme a decine di detenuti, preso in ostaggio una guardia e devastato parte della struttura penitenziaria.
Su quello che è successo dopo, le versioni divergono. Per le autorità, è stato semplicemente ristabilito l’ordine e i rivoltosi sono stati arrestati.
Secondo gli attivisti locali per i diritti umani, ex detenuti e familiari dei detenuti, la polizia ha lanciato gas lacrimogeni e usato fucili caricati con pallini da caccia. I prigionieri individuati tra i responsabili della rivolta sono stati allineati faccia al muro, insultati e presi a manganellate.
Per settimane sono stati costretti a dormire in tende al centro del cortile, senza poter usare docce e gabinetti per tre giorni e picchiati ogni volta che chiedevano di potervi andare.
Alcuni prigionieri sono stati torturati con la corrente elettrica. I contatti telefonici e le visite dei familiari sono stati sospesi, anche per due mesi. Nei primi giorni successivi alla rivolta, i prigionieri feriti non sono stati curati.
Tra coloro che andranno a processo il 17 settembre ci sono Ahmad Mshaima’, che sta scontando una condanna a un anno di carcere per una poesia giudicata offensiva nei confronti del re, e Naji Fateel, un difensore dei diritti umani condannato a 15 anni per “costituzione di un gruppo di terroristi avente per obiettivo la sospensione della costituzione e dell’unità nazionale”.
Nei confronti di chi ha sedato la rivolta non risulta sia stato preso alcun provvedimento, nonostante le 105 denunce presentate dai parenti dei prigionieri e le 15 sporte da altrettanti detenuti.
Il 18 marzo, otto giorni dopo i fatti, l’organo di vigilanza sugli istituti di pena presso il ministero dell’Interno aveva annunciato l’adozione di “tutte le misure necessarie” e l’invio di ispettori presso la prigione di Jaw. Amnesty International ha chiesto notizie sugli sviluppi delle indagini ma non ha ricevuto risposta.
Nabeel Rajab, che le lettrici e i lettori di questo blog conoscono bene, è a sua volta in attesa di processo. Rischia una lunga condanna per aver denunciato, attraverso Twitter, cosa accadde il 10 marzo nella prigione di Jaw.
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