di Enrico Passarella
«Chiediamo al governo del Bahrain di cambiare rotta sulle violenze, di attenersi alle leggi internazionali e di sedersi al tavolo con i dissidenti». Sono queste le parole del vice ministro agli affari esteri del Parlamento Internazionale per la Sicurezza e la Pace, Haitham Abu-Saeed, in relazione alle vicende di violenza contro i diritti umani avvenute in Bahrain.
A destare gravi preoccupazioni è il recente caso di una donna incinta arrestata e picchiata dalle autorità del Paese.
La donna in questione si chiama Nadya Alì, sciita, e la sua vicenda inizia il 30 maggio. La polizia, a un posto di blocco nel villaggio di Bani Jamra, ferma l’auto con a bordo Nadya e suo marito. Le autorità chiedono al marito di scendere dall’auto, lo ammanettano e lo mettono in un furgone per portarlo alla stazione più vicina.
La donna protesta e urla a gran voce l’innocenza del marito e per questo motivo gli viene confiscata la carta d’identità e le viene intimato di interrompere le rimostranze o altrimenti sarebbe stata denunciata.
Presentatasi più tardi alla stazione di polizia di Budaiya, come indicatole, per riavere la carta d’identità, Nadya viene immediatamente arrestata. Viene portata nel bagno dell’edificio, legata a una sedia e picchiata brutalmente da due poliziotte. Successivamente, è stata falsamente accusata di aver aggredito il personale di sicurezza e la sua detenzione è stata convalidata.
Molti ora tra le fila dell’opposizione si chiedono come possa essere possibile scendere a patti con chi ha compiuto una tale oscenità: la tortura e la violenza settaria sono violazioni dei diritti umani, ma la persecuzione di una donna incinta rientra tra i crimini contro l’umanità.
L’intera nazione è rimasta colpita da tale disumanità. La Women Affairs Unit del partito di maggioranza di al-Wefaq in un comunicato afferma: «La detenzione di Nadya e del suo bambino in carcere mostra come il regime colpisce le donne e i bambini. L’arresto di Nadya rivela un grave problema nel settore dei diritti umani in Bahrain, specialmente a proposito delle donne e dei bambini».
Il partito e il Liberties and Human Rights Department (LHRD) ha chiesto alla Croce Rossa di intervenire per ottenere il rilascio per motivi umanitari. LHRD ha sottolineato: «Tenere Nadya in carcere per così tanto tempo è una punizione per lei e per il suo bambino».
Sempre il vice ministro agli affari esteri del Parlamento Internazionale per la Sicurezza e la Pace Haitam Abu-Saeed ha dichiarato alla stampa: «Molti cambiamenti sono richiesti alle autorità del Bahrain e il caso di Nadya è solo la punta dell’iceberg, perché le violazioni sono molte e gravi e sono documentate. I rapporti che riceviamo da Manama ci indicano che i metodi di tortura e gli abusi dei diritti umani vanno oltre le aspettative».
Il Bahrain è un paese il cui popolo da anni chiede misure più democratiche. Dal 2011 si sono susseguite manifestazioni per chiedere riforme sociali, politiche e costituzionali, ma il re Hamad bin Isa al-Khalifah finora non ha preso in considerazione l’ipotesi di rinunciare ai suoi privilegi reali per il bene delle giustizia e della democrazia, anzi ha risposto alle richieste della gente con la violenza.
Molteplici abusi sono stati segnalati dagli attivisti nel Paese: il re Hamad ha dato ordine all’apparato di sicurezza di agire con fermezza contro chi osa opporsi. Il caso di Nadya ha avuto, perciò, gravi ripercussioni sulla popolarità del re e delle forze governative, aumentando i seguaci del movimento nazionale di resistenza.