Se in tanti hanno deriso i commenti di Alireza Zakani sulla caduta imminente dell’Arabia Saudita e su quello che lo scorso settembre Zakani stesso aveva ribattezzato come “la fine della tribù degli Al Saud”, facendo notare con fare arrogante i suoi successi politici dell’Iran come trascurati e vani, sul fronte opposto sono in tanti a credere che il grande analista politico del momento sia riuscito a colpire nel segno.
Se facciamo un passo indietro di un mese e guardiamo ai recenti sviluppi in Medioriente a breve termine, alla vittoria degli Houthis nel governo yemenita, alle rivolte del Bahrain, all’irrimediabile sentenza di morte per Sheikh Nimr Al Nimr, all’avanzata dell’ISIS in Iraq e in Siria, è impossibile non notare come fratture politiche, sociali e religiose abbiano segnato il Medioriente a discapito dell’impero degli Al Saud.
Se da un lato l’Arabia Saudita ha dominato il mondo arabo e islamico sin dalla caduta dell’impero Ottomano, affievolita poi dall’impero britannico e statunitense ma sempre disposta a piegarsi al volere occidentale, dall’altro lato il principio di esclusione e l’atteggiamento persecutorio hanno creato una situazione per cui il regno è diventato il peggior nemico di se stesso.
I Petrodollari Sauditi
Pensare all’immensa ricchezza dell’Arabia Saudita equivale all’identificare nei petrodollari la fonte dell’egemonia politico–istituzionale e religiosa dello Stato. Mentre i miliardi di dollari sauditi hanno legittimato la dinastia degli Al Saud al controllo di intere nazioni, governi e politiche, sostenendo e allontanando, sviando e mandando in frantumi uomini e ideali politici lungo la corsa alla realizzazione dello Stato mediorientale, lo stesso regno è diventato schiavo della sua stessa capacità di sostenere le sue alleanze.
Come spesso accade, lo Stato saudita potrebbe presto dover fronteggiare inversioni di rotta non indifferenti in fatto di economia. Come ci racconta il giornalista del Globalist Nick Butler, l’Arabia Saudita sembra aver perso il controllo dell’Oro nero sul mercato, con i prezzi in caduta libera. “I sauditi potrebbero non essere più un grado di contrastare il ribasso dei prezzi” continua Butler, aggiungendo che gli orizzonti politici ed economici dissonanti all’interno della cerchia dei Paesi dell’OPEC renderebbero difficoltosa, e a tratti quasi impossibile da realizzare, qualunque linea politica di restrizione, ponendo così il regno saudita sotto grande pressione.
“Fatta eccezione per il Kuwait, risulta assai difficile immaginare i Paesi dell’OPEC incapaci di accettare un taglio consistente alla produzione, con una conseguente ripercussione sui guadagni. I Sauditi sono nelle loro stesse mani.“
Vittime dei loro stessi errori di valutazione politici ed economici, gli Al Saud avrebbero potuto aprire il fuoco sulla loro stessa dimora, minacciando di mettere in ginocchio le monarchie nel territorio del Golfo.
Se l’Arabia Saudita dovesse dimostrarsi incapace di supportare economicamente i suoi territori e di finanziare le guerre all’interno della regione – a oggi, diversi sono stati i fronti di guerra rimasti irrisolti: Yemen, Siria, Iraq, Egitto, Libia, Bahrain– non è da escludere il paradosso che il regno possa ritrovarsi sotto scacco proprio per mano sua.
Senza dubbio alcuno, dal 2011, la Turchia e l’Iran sono i due Stati che hanno assistito al loro stesso spettacolo egemonico, forti di un potere rocambolesco derivato da un fallo politico dell’Arabia.
Tempus fugit
Nello stesso momento in cui alcuni Stati inneggiano all’emancipazione politica, e altri imboccano il tunnel di un’aspra battaglia al radicalismo islamico, il Medioriente è in fase profonda di riassetto del potere.
Come Zakani sostiene con fare eloquente, “Tre sono le capitali arabe finite in mani iraniane e ormai vittime della rivoluzione islamica e Sana’a è in lizza per il quarto posto.”
Gli Houthis yemeniti – fazione sotto il comando di Abdel-Malek Al Houthi – ostentano uno spirito indipendente. All’altro estremo, è innegabile che la fazione degli Zaidi – vecchia appendice dello sciismo – fa affidamento su Tehran per la guida e il supporto, proprio a immagine e somiglianza del partito politico libanese Hezbollah e della città di Baghdad.
Ma contrariamente all’Arabia Saudita, che ha dettato legge come un monarca farebbe con i suoi sudditi, la politica iraniana, con la sua prontezza nel consigliare e non dettare, sostenere e non imporre, ha fatto della Repubblica Islamica uno Stato carismatico dall’ideologia fortemente radicata.
Così, l’Iran diventa l’alternativa in perfetto stile saudita, con in mano una politica del terrore contro i suoi antagonisti.
É ormai giunto il momento di denunciare l’egemonia e la tirannia saudite: sembra che il regno si stia indebolendo, e che le sue fondamenta stiano avvertendo il peso ormai eccessivo di politica, economica, società e religione.
Tutto questo sta portando lo Stato saudita a un disfacimento senza precedenti: il suo status di guida religiosa macchiato di diffamazioni ha sostenuto la mente diabolica dell’ISIS. L’economia è ormai al collasso, la società è vittima di una implosione dettata da un’ ingiustizia sociale settaria, e la sua posizione di Stato supremo soffre la presenza dell’ Iran e della Turchia.
Il Grande Jihad Iraniano
Di fronte al Parlamento iraniano, Zakani ha parlato della cosiddetta fase del ‘Grande Jihad‘ per intendere la volontà dello Stato di esportare e proiettare il modello islamico rivoluzionario nelle aree principali della regione. Questo porterebbe con sé il concetto di emancipazione politica, sociale e religiosa, come il credo della fede musulmana insegna.
In questo contesto, Jihad è una lotta all’ideologia e non una guerra.
Zakani precisa che questa fase di Grande Jihad “necessita di una politica ad hoc e di un approccio coscienzioso, poiché portatrice di pericolose ripercussioni”, e sottolinea l’assetto decadente e rallentato di uno Stato ormai perdente nella sua corsa al controllo. Non ultima, la convinzione che il denaro avrebbe la meglio su tutto.
Da intuitivo stratega, Zakani suggerisce che l’Iran “supporti movimenti attivi nell’ambito della rivoluzione per porre fine all’oppressione e assistere gli oppressi in Medioriente”. Vale a dire che l’Iran vorrà capeggiare come Stato leader e non dittatore.
A differenza dell’Arabia Saudita, l’Iran vuole rappresentare il cambiamento facendosi così promotore di una bella mossa politica.
Nel 1979, prima dello scoppio della Rivoluzione Islamica, i due poli lungo l’asse americano del Medioriente erano lo stato teocratico dell’Arabia Saudita e la Turchia repubblicana. Un’equazione matematica: la manifestazione dello sciismo in una cornice repubblicana.
Trent’anni dopo, la Turchia è diventata l’ombra di se stessa, e l’Arabia Saudita ha continuato ad accumulare dissensi. Pur con ostilità degli Stati ad esso estranei e consensi economici non ricambiati, l’Iran, dal canto suo, ha continuato ad espandersi in maniera esponenziale, sostenuto dalla brama di potere dei grandi che mai avrebbero pensato di cadere.
Così risuonano le parole di Zakani: “Ora esistono due poli. Il primo sotto l’egida degli Stati Uniti e dei suoi alleati sauditi, il secondo di matrice Iraniana e degli stati appartenenti al grande progetto”.
Senza troppo pensare al come ci si sentirebbe di fronte all’Iran e ai pregiudizi di questo Stato, non resta che perseverare davanti alla Repubblica Islamica. Mai come oggi, il Medioriente sta diventando specchio dell’impero ottomano.
Traduzione a cura di Silvia Velardi