di Michele Giorgio
Quante analogie tra la protesta di Occupy Gezi contro il nuovo sultano Erdogan e la sollevazione (nella foto Reuters) che prosegue da oltre due anni del popolo del Bahrain contro la monarchia assoluta di Hamad bin Isa al Khalifa.
Eppure scorrendo i lanci delle agenzie italiane in questi ultimi 2-3 mesi si scopre che questo piccolo arcipelago del Golfo è ignorato. E ciò è ancora più sconfortante se si considera che il contenuto settario e religioso sempre più marcato della guerra civile siriana ha forti ripercussioni in Bahrain dove re Hamad è uno dei petromonarchi più attivi nel lanciare accuse all’Iran e a Hezbollah (alleati di Bashar Assad) per il ruolo (presunto) «sovversivo» che svolgerebbero nella regione.
Non devono ingannare i piccoli segnali di distensione tra il neo-eletto presidente iraniano, Hassan Rohani, e l’Arabia saudita. Riyadh resta convinta dell’«urgenza» di contenere «l’espansionismo sciita» che Tehran promuoverebbe nella regione, a cominciare dal Bahrain. Proprio le forze armate saudite, sotto la copertura dell’accordo “Scudo difensivo del Golfo”, sono intervenute nel 2011 su richiesta di re Hamad per schiacciare l’accampamento di tende di Piazza della Perla a Manama, simile a quello di Piazza Tahrir al Cairo.
Eppure in Bahrain di cose ne accadono e molto gravi. La popolazione continua la sua battaglia pacifica per ottenere i diritti negati dalla monarchia assoluta. Ben pochi lo riportano. Due giorni fa, ad esempio, un tribunale ha condannato un oppositore 18enne, Akbar Ali al Kishi, a 10 anni di prigione per aver fatto esplodere, secondo l’accusa, alcune bombole di gas – peraltro a scopo dimostrativo, non per un attentato -, assieme ad altri adolescenti.
Per al Kishi la prigione potrebbe durare ben oltre quella condanna perchè il giovane attivista nei giorni scorsi era stato condannato per un altro “crimine” politico ad altri 16 anni di carcere. Non basta. Lo attendono altri processi e condanna dopo condanna i suoi avvocati e la famiglia temono che il totale arrivi a 80 anni di detenzione. Il padre peraltro denuncia che il giovane è stato torturato in prigione per costringerlo a confessare.
Al Kishi ha anche denunciato al Centro del Bahrain per i diritti umani che uno degli ufficiali che lo ha interrogato ha minacciato di sodomizzarlo. «Non riusciamo quasi a parlargli – aggiunge il padre – ci permettono colloqui in carcere della durata appena di 10 minuti». Mortada al-Moqdad, un altro attivista bahranita, afferma contro al Kishi «è in atto una vendetta per il suo impegno sin da quando era un ragazzo, le autorità in questo modo ritengono di dare una lezione a tutti i giovani che prendono parte alle manifestazioni».
Ne è convinta anche la giornalista Reem Khalifa. «Le accuse nei confronti di quel ragazzo sono molto vaghe – spiega al manifesto – l’impianto sembra voler dare una punizione esemplare e spaventare gli attivisti e le loro famiglie». Khalifa sottolinea i punti in comune tra la rivolta pacifica repressa dalla polizia in Turchia e quanto accade in Bahrain. «Il nostro paese però viene ignorato dall’informazione», lamenta la giornalista.
E mentre piovono dure accuse su Damasco che non consente l’ingresso nel paese della commissione dell’Onu incaricata di indagare su un possibile uso di armi chimiche, nessuno apre bocca di fronte al secondo secco «no» della monarchia bahranita all’arrivo dell’inviato dell’Onu per i reati di tortura, Juan Mendez. «Non ci è stata fornita alcuna data per il nostro ingresso in Bahrain e ciò può essere interpretato come l’esistenza di fatti da nascondere», ha notato Mendez. Senza dimenticare che i leader di Piazza della Perla e diversi attivisti dei diritti umani come Nabil Rajab, Mahmud al Khawaja e sua figlia Zeinab continuano a rimanere in carcere.