«Non chiamatele Primavere arabe»

Il presidente di Medici senza frontiere in Italia, Kostas Moschochoritis, aveva un timore ieri mattina nel dirigersi verso Palazzo Tassoni, in via Ghiara, sede del convegno sulle crisi umanitarie dimenticate: «Avevo paura che, data la lontananza di questa sede dal cuore di Internazionale, fossimo anche noi dimenticati». La risposta del pubblico è stata eloquente: la non monumentale sala convegni della facoltà di Architettura era così strapiena di giovani seduti ovunque, che già prima delle 11 non facevano entrare più nessuno. Doppia conferma, dunque: c’è la possibilità di decentrare qualche evento dalla piazza senza penalizzarlo, e anche argomenti considerati di minore appeal riservano sorprese in termini di affluenza.

Chi è riuscito a guadagnarsi mezzo metro quadrato di spazio è stato ripagato da descrizioni crude, al limite del dolore fisico, di quanto succede in giro per il mondo all’insaputa dei media italiani e occidentali in generale. Sul viso incorniciato dal velo di Maryam Al Khawaja già si possono leggere più cose di quante non dovrebbero stare dentro i suoi 25 anni, ma quando l’attivista dei diritti umani del Bahrain ha iniziato a raccontare, ogni velo è caduto. «Non amo il termine “primavere arabe” per descrivere le rivolte del Medio Oriente, abbellisce una realtà fatta di migliaia di persone torturate e uccise. Il presidente della mia organizzazione è in pericolo di vita per lo sciopero di fame e sete in carcere, da quando gli hanno impedito di andare al funerale della madre. Mio padre, di passaporto danese (l’Europa non dice nulla), è condannato all’ergastolo e tutti i miei parenti sono stati torturati, imprigionati, perseguitati. Come migliaia di cittadini del Bahrain, a volte solo per aver cliccato “Mi piace” su una foto. Eppure i media non ne parlano e i governi occidentali non intervengono – ha incalzato – nemmeno Obama, che aveva promesso di aiutare chi lottava per la libertà. Ora la nostra speranza siete voi cittadini».

Da cosa dipende questo silenzio, come pure quelli su Sud Sudan o Corno d’Africa? Giuseppe Sarcina (Corsera) ha rispolverato una famosa legge del giornalismo, secondo la quale «un morto inglese vale 5 morti francesi, 20 egiziani, 500 indiani e 1.00 cinesi». Ma non è solo un problema di lontananza. «C’è la logica della “vittima utile politicamente” – ha spiegato Kostas Moschochoritis (Msf) – Le catastrofi del Pakistan hanno richiamato aiuti occidentali perché i governi hanno potuto dire, “se non interveniamo è un aiuto ai terroristi”. Nel Sud Sudan non c’è questo pericolo, così ogni giorno continuano a morire 5 bambini nei campi profughi».

(s.c.)

©RIPRODUZIONE RISERVATA



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