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Mentre la coalizione guidata dall’aviazione americana concentra i propri attacchi sulla città di Mosul, gli esperti si interrogano sull’opportunità di colpire le raffinerie di petrolio controllate dall’IS. Secondo gli ultimi dati raccolti dall’intelligence americana, lo Stato Islamico guadagnerebbe ogni giorno tra 1 e 3 milioni di dollari grazie alla vendita del petrolio che viene fatto transitare verso la Turchia e il Kurdistan iracheno. Alcuni analisti suggeriscono che il modo migliore per limitare i guadagni dell’IS è di intervenire contro i trafficanti. Questa idea, tuttavia, presenta un fondamentale limite: gli Stati destinatari dei carichi di greggio hanno tutto l’interesse affinché i contrabbandieri raggiungano la propria destinazione dato che il prezzo di vendita fissato dall’IS è di appena 25 dollari al barile, una cifra davvero conveniente se comparata con gli attuali 91,56 dollari necessari per l’acquisto di un barile di petrolio WTI e i 96,85 richiesti per il Brent.
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Un’altra idea avanzata dagli esperti di strategia militare è di colpire le raffinerie di petrolio controllate da IS, in modo tale da tagliare una delle principali fonti di finanziamento dell’organizzazione. Questa strategia, tuttavia, determinerebbe un danno nel lungo periodo anche a quelle nazioni, Iraq e Siria, in cui si trovano i giacimenti di petrolio. Si potrebbe obiettare che questi paesi possono sempre ricostruire le installazioni utilizzate da IS, il che naturalmente è vero. Ciò che tuttavia non viene considerato è l’enorme quantità di denaro di cui dispone lo Stato Islamico. Recenti stime compiute dall’intelligence americana parlano di circa 2 miliardi di dollari, il che dimostra chiaramente che il petrolio non è la principale fonte di approvvigionamento dell’IS. Secondo un’indagine compiuta dall’Istituto degli Studi Strategici centinaia di milioni di dollari sono stati raccolti da IS grazie a finanziamenti privati, molti dei quali provenienti dall’Arabia Saudita. Questi dati sono stati evidenziati anche dal Brooking Institute il quale ha sostenuto che la maggior parte dei finanziamenti sono stati effettuati attraverso il sistema bancario del Kuwait in cui non si applica alcuna norma anti-riciclaggio e non è prevista la tracciabilità degli investimenti.
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Attaccare i pozzi di petrolio controllati dall’IS potrà sicuramente diminuire le entrate dell’organizzazione ma non assesterà un colpo determinante agli uomini di al-Baghdadi, che potranno comunque contare su un patrimonio sufficiente a garantirgli attrezzature superiori rispetto agli altri attori statali e non con cui si trovano a scontrarsi. Quando si pensa all’IS e ai suoi guadagni viene automatico immaginarsi un manipolo di miliziani che scambiano petrolio o altre risorse in cambio di denaro contante. Questa realtà non rappresenta in alcun modo lo Stato Islamico che, grazie alla permissività del sistema bancario del Kuwait e di altri Stati dell’area, è riuscito ad ottenere ingenti finanziamenti in cui, tuttavia, nessuno materialmente ha tirato fuori un dollaro dalle proprie tasche. Se gli Stati Uniti e i loro alleati vogliono colpire lo Stato Islamico, privandolo del denaro necessario a proseguire la propria attività, dovrebbero concentrarsi sulle sue transazioni finanziarie, identificarne i conti correnti bancari, spingere per l’introduzione di regole di tracciabilità in tutti quei sistemi che non le prevedono. Una simile politica, naturalmente, richiederebbe il consenso di Stati, come il Kuwait, che sono ben disposti a fiancheggiare gli Stati Uniti nella lotta contro l’IS ma mostrano una decisa intransigenza quando qualcuno chiede di accedere ai dati relativi alle transazioni finanziarie che avvengono nel loro paese.
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